Michael Freeman, il fotografo viaggiatore.
D: Spesso sentiamo di persone che iniziano ad affrontare seriamente la fotografia partendo dalla passione per i viaggi, e non è raro trovare fotografi che sviluppano una migliore conoscenza del mondo seguendo la loro voglia di scattare delle belle fotografie. Nella tua carriera è stato il viaggio che ti ha spinto a padroneggiare la fotografia oppure sono stati i tuoi magnifici scatti che ti hanno portato a viaggiare sempre di più?
M: In verità, è stato proprio viaggiare che mi ha spinto nel mondo della fotografia da quello della pubblicità in cui ho iniziato la mia carriera (tanto tempo fa!). Ho sempre avuto una passione per la fotografia, ma all’inizio non avevo la giusta spinta per allontanarmi dal percorso di una carriera tradizionale nel campo. Dopo Oxford, in cui ho studiato Geografia (e quindi un poco di influenza c’è!), sono stato assunto in una affascinante agenzia di pubblicità a Londra, all’epoca in cui la pubblicità stessa era qualcosa di affascinante. E sì, è stato divertente, una sfida continua, ma alla fine mi sono accorto che volevo davvero impegnarmi a tempo pieno nella fotografia.
Questo potrebbe risultare strano al giorno d’oggi, ma all’epoca (parliamo dei primi anni ’70), il mondo del business era meno duro di quanto lo sia adesso sotto molti aspetti. Sono riuscito a convincere l’agenzia a darmi un periodo sabbatico di due mesi e mezzo (immaginate fare una richiesta del genere oggi!), ho comprato due Hasselblad di seconda mano da un tizio del settore media, sono partito per il Brasile e ho viaggiato fin dentro l’Amazzonia. Ho fatto in modo di non pensare per nulla alla carriera in quei giorni e mi sono comportato come se non avessi altro lavoro che fotografare. Bene, per farla breve, al mio ritorno ho cercato di fare qualcosa con le mie fotografie, ho contattato delle persone all’ambasciata brasiliana che mi hanno detto che avrebbero allestito uno spettacolo per me.
Nella loro lista di invitati c’erano l’Editore e l’Editore fotografico di Time-Life che stavano da poco allestendo il settore editoriale dei libri volendo aprire proprio con uno che parlasse di Amazzonia. Hanno comprato le mie foto. Mesi e mesi dopo, quando ormai me ne ero quasi dimenticato, mi hanno chiamato e mi hanno fatto vedere come stavano usando le foto, la copertina, qualche pagina doppia, immagini di apertura di un capitolo e così via. Ho capito che quello era il miglior incoraggiamento che io avessi probabilmente avuto, così il giorno dopo ho dato le dimissioni e l’agenzia mi ha addirittura regalato una liquidazione attraverso un servizio fotografico pubblicitario di due settimane per un loro cliente tutto per me. Che bei tempi i vecchi tempi…
D: Secondo te, un fotografo viaggiatore deve tenere la sua fotocamera sempre accesa, o ci sono momenti (o interi giorni addirittura) in cui è meglio smettere di scattare per concentrarsi sui luoghi, le persone, il viaggio stesso?
M: Sono contento che abbiate detto il “fotografo viaggiatore” piuttosto che il più usuale “fotografo di viaggio”. Non credo a quest’ultima categoria come ad una professione, poiché suona piuttosto vuota, mi dà l’impressione di qualcuno che semplicemente alimenta l’industria dei viaggi attraverso le sue fotografie. (Mia moglie mi definisce un turista di professione, ma questa è un’altra storia!). Viaggio allo scopo di scattare fotografie, e questo significa che quando sono al lavoro mi concentro completamente sul posto, la storia, le persone. I miei viaggi preferibilmente durano almeno cinque settimane, ho bisogno di tutto questo tempo per ambientarmi, non sentirmi legato ad una agenda troppo serrata e per trarre vantaggio dalle cose che capiteranno. Quindi potremmo dire che i luoghi, le persone ed il viaggio sono inseparabili dalla fotocamera. Io li percepisco attraverso lo scatto. Ma di sicuro spengo la fotocamera per uscire a cena o prendere qualcosa al bar!
D: Siamo rimasti molto colpiti dai tuoi lavori riguardo il sud-est asiatico, se dovessi scegliere, cosa colpisce di più il tuo occhio tra le persone, i colori, i paesaggi, la vita urbana, i monumenti?
M: E’ nella natura umana classificare le cose in un certo ordine e sceglierne di preferite, quindi non posso biasimarvi per questa domanda. Ma la verità è che io non mi avvicino alle storie, ai servizi e ai viaggi in questo modo. Ho avuto tempi belli e brutti nel mio cammino, successi e fallimenti, ma quasi ogni viaggio ha avuto qualche qualità speciale, e me ne ricordo con passione molti. Eccone alcuni: guadare cumuli di guano di uccelli zeppi di scarafaggi in una caverna in Borneo mentre facevo un servizio su una “cena” all’interno di un nido… Bere rum da una noce di cocco appena colta a Bayon dopo un giorno di scatti fatti ad Angkor ed essere l’unico occidentale in quel momento ad essere lì (sul serio!) … Volare sul mare di Sulu a bordo di un elicottero d’assalto che l’aviazione filippina mi ha concesso per tre giorni … Vivere in un remoto villaggio Akha vicino il confine Birmano (nei primi tempi, quando non c’erano turisti…)
Certo, penso che ogni editore fotografico che produce un servizio probabilmente ti direbbe che il quello è il lavoro su cui è fissato al momento. Tendo anche io ad avere fissazioni. In questo momento è la Cina, particolarmente dopo gli ultimi due anni, spesi a scattare il mio nuovo libro (che ora è in fase di stampa) riguardo un’antica via di commercio tra lo Yunnan ed il Tibet, intitolato The Tea Horse Road.
D: Prima di iniziare un viaggio, è importante per un fotografo lo studio del lavoro fotografico già esistente sul quel luogo, o questo atteggiamento tende ad avere una influenza troppo forte sui nostri scatti quando siamo sul posto?
M: Bella domanda. Ho sentimenti misti al riguardo. In un mondo ideale preferirei guardare un sacco di brutte foto del luogo, al semplice scopo di sapere cosa vi troverò senza esserne influenzato. La peggior cosa nel guardare belle foto è che cominci a pensare di non poterne fare di simili senza copiare. Ma in realtà di alcuni posti in cui sono stato non esisteva già nessuna fotografia!
D: Oggi tutti possono approdare alla foto semiprofessionale attraverso i prezzi relativamente bassi di reflex ed altro equipaggiamento da professionista. Pensi che questo trend abbasserà la qualità generale delle foto che si vedono in giro? Pensi che le migliori foto siano appannaggio ancora solo dei grandi fotografi?
M: La cosa buona riguardo questa maggiore accessibilità è che sempre più persone stanno trattando la fotografia in modo serio e vogliono usarla come un mezzo di espressione creativa. Tutto ciò mi piace parecchio. Per quanto riguarda la qualità, beh, come in ogni medium creativo c’è una specie di piramide di qualità. Ci saranno sempre pochi fotografi molto bravi, ma potremmo dire lo stesso di attori, musicisti, scrittore e così via. La proporzione tra mediocre e ottimo probabilmente resta la stessa, quindi un maggior numero di fotocamere significherà un maggior numero di foto mediocri ed ottime!
D: Tu hai scritto un’enorme quantità di libri, ogni fotografo qui in Italia ti conosce per i tuoi scritti educativi e i tuoi bellissimi libri fotografici; questa attività ti impedisce di scattare in alcuni momenti? O riesci a trovare il giusto tempo per ogni cosa?
M: Io penso che mi impegno troppo, specialmente nello scrivere di fotografia, ma la cosa mi appassiona, così non ho molta scelta. Sono una persona molto attiva in ogni caso. Ma ho fastidiosi dubbi sul fatto che dovrei in realtà stare fuori a scattare quando mi trovo a scrivere. Comunque, prendiamo ad esempio la giornata di oggi. Sono appena arrivato in volo da Shanghai a Pechino, quindi il tempo necessario al volo è stato perfetto per scrivere. E sto scrivendo questa risposta per voi adesso nella mia camera d’albergo, è tardo pomeriggio con un giorno molto piatto e grigio al di fuori. Pensavo di andare in un parco qui vicino dove stanno svolgendo varie attività tra cui Tai Chi e Calligrafia, ma la luce non è ideale e devo restare ancora alcuni giorni qui. Per cui… scrivo!
D: Quale sarà il tuo prossimo progetto fotografico?
M: Ho sempre diversi progetti attivi allo stesso momento, e generalmente possiamo suddividerli in tre tipi: reportage, design e architettura, libri fotografici. I primi sono i più interessanti, ma devo dire che ora come ora non ho nulla di particolare al riguardo, avendo speso i miei ultimi due anni sul libro The Tea Horse Road di cui parlavo prima. E’ stato un periodo di forte dedizione. Quello precedente è stato il Sudan, altri due anni. Ho qualche possibilità in mente, ma devo esserne ben certo visto che dovrò passare altri due o tre anni concentrato su ciò che sceglierò!
D: Hai un nuovo libro in uscita?
M: Sì. Si intitola “La mente del fotografo” ed è il seguito a “L’occhio del fotografo”. Il primo di questi libri è stato sempre come un figlio per me, ma avevo un sacco di cose in più da dire. Comunque, dobbiamo tenere il numero di pagine sempre non troppo alto in un libro per far sì che il prezzo rimanga accessibile. Così nello scorso anno e mezzo ho scritto questo nuovo libro che continua dove l’altro finisce. “L’occhio del fotografo” ha avuto un sorprendente successo, tutto ciò è molto gratificante, più di 300.000 copie finora in 16 lingue.
D: Hai un suggerimento particolare per i nostri lettori?
M: Suggerimento? Cielo… Non faccio che darne nei miei libri! Pensavo che i vostri lettori avrebbero accolto con piacere un momento di pausa dai consigli di Freeman! Ok, solo uno allora… Spingetevi con coscienza a sperimentare in tre aree: scelta del soggetto, composizione e illuminazione.
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