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La storia di Peter Lindbergh attraverso i suoi scatti al naturale delle celebrità più note del mondo

Dalla Duchessa del Sussex a Julianne Moore, passando per Uma Thurman e Lupita Nyong’o: Peter Lindbergh ha fotografato alcune delle celebrità più note al mondo, ritraendole tutte in versione naturale. La tipologia di contratto preferita da Lindbergh, amava dire lui, era quella in cui si precisava a chiare lettere che si sarebbe astenuto dal fotoritocco, una mossa rivoluzionaria nell’era dei filtri e di Photoshop. Meghan Markle dichiarò di essere emozionatissima all’idea di lavorare con lui per la copertina di Vanity Fair nel 2017, il mondo intero avrebbe visto per la prima volta le sue lentiggini.

«L’unica cosa che mi interessa è essere autentico».

Dichiarò lui stesso al Sunday Times nel 2017. Nella sua carriera di quarant’anni e più, ha firmato un numero esorbitante di copertine dei magazine di moda, e moltissime sono quelle di Vogue. Dalla collaborazione con Vogue America, in particolare, nell’agosto del 1988 nacque il fenomeno delle supermodelle: una sua foto ritraeva un gruppo di ragazze vestite solo di una semplice camicia bianca, con una spiaggia a fare da sfondo. Erano Linda, Tatjana, Christy… che presto diventarono appunto le supermodel. Poi, a novembre dello stesso anno, per il primo numero di Vogue America sotto la guida della nuova editor-in-chief, Anna Wintour, fotografò la modella israeliana Michaela Bercu in copertina, con i capelli sciolti, il sorriso sulle labbra e un top impreziosito di Christian Lacroix.

Poi, fu sempre lui a firmare, negli Anni ’90, quell’iconica copertina di British Vogue che confermava lo status (di supermodelle) di Linda Evangelista, Tatjana Patitz, Naomi Campbell, Christy Turlington e Cindy Crawford.

I ritratti intimi e in bianco e nero divennero un altro tratto distintivo della fotografia di Lindbergh . Influenzato dall’opera dello street photographer Garry Winogrand e della fotografa documentaristica della Grande Depressione, Dorothea Lange, disse a Vogue Italia che per lui, il mezzo fotografico era «connesso alla verità più profonda dell’immagine, al suo significato più nascosto». La top model ceca, Eva Herzigova, che Lindbergh ha fotografato più volte durante la carriera, ha così dichiarato a Vogue:

«Peter mi ha scattato foto da quando avevo 16 anni. Mi sentivo protetta in sua compagnia e adoravo quelle immagini in bianco e nero che esprimevano tutta la forza delle donne attraverso i loro occhi. Era in grado di immortalare l’anima di una persona [con la sua fotografia]».

Lindbergh dichiarò sempre la sua indipendenza dagli “obblighi” e dalla vision di editor e clienti. Nonostante questo, è stato la mente e l’occhio dietro alcune delle campagne pubblicitarie più note e famose dei nostri tempi, tra cui quelle per Calvin Klein, Armani e Comme des Garçons. Inoltre, a oggi rimane il solo fotografo ad aver firmato la fotografia di tre calendari Pirelli (nel 1996, nel 2002 e nel 2017).

Nato a Lissa (Leszno), ad ovest della Polonia, il 23 novembre 1944, Lindbergh aveva solo pochi mesi quando la famiglia fu costretta a lasciare il Paese in seguito all’invasione tedesca. Il più piccolo di tre figli, trascorse gran parte dell’infanzia a Duisburg, una piccolo cittadina industriale a nord della Germania. Lasciò la scuola all’età di 14 anni per lavorare come vetrinista presso un grande magazzino del luogo, Karstadt, prima di trasferirsi in Svizzera a 18 anni per evitare il servizio militare. Si stabilì, poi, a Berlino per avvicinarsi al mondo dell’arte, della musica e dei musei. «Ero come una spugna», dichiarò al Guardian nel 2016, «Assorbivo tutto».

Si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti di Berlino, ma la lasciò per andare ad Arles sulle tracce di Vincent van Gogh, maestro del colore che lui amava moltissimo. Dopo aver trascorso otto mesi dipingendo e vendendo i suoi quadri ai mercati del luogo, si rimise in viaggio e in autostop girò l’Europa e il nord Africa. Quando tornò a Berlino era un uomo nuovo e scoprì la fotografia – la sua futura professione – per puro caso. «Quando a mio fratello nacquero i suoi meravigliosi figli – io non ero ancora papà – per qualche motivo decisi di volerli fotografare e acquistai la mia prima macchina fotografica. C’è qualcosa di totalmente inconscio nei bambini. È così che ho imparato ad amare questo mestiere», disse al Guardian nel 2016.

Cominciò a lavorare come assistente per il fotografo tedesco Hans Lux, per poi aprire il suo studio a Düsseldorf, nel 1973. La sua prima campagna pubblicitaria fu per VW Golf mentre il suo primo servizio di moda arrivò nel 1978 per la rivista Stern. Quello stesso anno si trasferì a Parigi e, nonostante avesse casa anche ad Arles e a New York, continuò a vivere nella capitale francese per il resto della sua vita in relativa privacy. Non pubblicò mai niente di personale sui suoi profili social e invitò la gente a guardare le sue foto piuttosto che a interessarsi alla sua vita privata. Con un post su Instagram,  il 3 settembre 2019, la famiglia ha scritto: “Con grande tristezza annunciamo la morte di Peter Lindbergh all’età di 74 anni. Lascia la moglie Petra, la figlia Astrid, i quattro figli Benjamin, Jérémy, Simon, Joseph e sette nipo

Michael Freeman, il fotografo viaggiatore.

DSpesso sentiamo di persone che iniziano ad affrontare seriamente la fotografia partendo dalla passione per i viaggi, e non è raro trovare fotografi che sviluppano una migliore conoscenza del mondo seguendo la loro voglia di scattare delle belle fotografie. Nella tua carriera è stato il viaggio che ti ha spinto a padroneggiare la fotografia oppure sono stati i tuoi magnifici scatti che ti hanno portato a viaggiare sempre di più?

M: In verità, è stato proprio viaggiare che mi ha spinto nel mondo della fotografia da quello della pubblicità in cui ho iniziato la mia carriera (tanto tempo fa!). Ho sempre avuto una passione per la fotografia, ma all’inizio non avevo la giusta spinta per allontanarmi dal percorso di una carriera tradizionale nel campo. Dopo Oxford, in cui ho studiato Geografia (e quindi un poco di influenza c’è!), sono stato assunto in una affascinante agenzia di pubblicità a Londra, all’epoca in cui la pubblicità stessa era qualcosa di affascinante. E sì, è stato divertente, una sfida continua, ma alla fine mi sono accorto che volevo davvero impegnarmi a tempo pieno nella fotografia.
Questo potrebbe risultare strano al giorno d’oggi, ma all’epoca (parliamo dei primi anni ’70), il mondo del business era meno duro di quanto lo sia adesso sotto molti aspetti. Sono riuscito a convincere l’agenzia a darmi un periodo sabbatico di due mesi e mezzo (immaginate fare una richiesta del genere oggi!), ho comprato due Hasselblad di seconda mano da un tizio del settore media, sono partito per il Brasile e ho viaggiato fin dentro l’Amazzonia. Ho fatto in modo di non pensare per nulla alla carriera in quei giorni e mi sono comportato come se non avessi altro lavoro che fotografare. Bene, per farla breve, al mio ritorno ho cercato di fare qualcosa con le mie fotografie, ho contattato delle persone all’ambasciata brasiliana che mi hanno detto che avrebbero allestito uno spettacolo per me.
Nella loro lista di invitati c’erano l’Editore e l’Editore fotografico di Time-Life che stavano da poco allestendo il settore editoriale dei libri volendo aprire proprio con uno che parlasse di Amazzonia. Hanno comprato le mie foto. Mesi e mesi dopo, quando ormai me ne ero quasi dimenticato, mi hanno chiamato e mi hanno fatto vedere come stavano usando le foto, la copertina, qualche pagina doppia, immagini di apertura di un capitolo e così via. Ho capito che quello era il miglior incoraggiamento che io avessi probabilmente avuto, così il giorno dopo ho dato le dimissioni e l’agenzia mi ha addirittura regalato una liquidazione attraverso un servizio fotografico pubblicitario di due settimane per un loro cliente tutto per me. Che bei tempi i vecchi tempi…

DSecondo te, un fotografo viaggiatore deve tenere la sua fotocamera sempre accesa, o ci sono momenti (o interi giorni addirittura) in cui è meglio smettere di scattare per concentrarsi sui luoghi, le persone, il viaggio stesso?

M: Sono contento che abbiate detto il “fotografo viaggiatore” piuttosto che il più usuale “fotografo di viaggio”. Non credo a quest’ultima categoria come ad una professione, poiché suona piuttosto vuota, mi dà l’impressione di qualcuno che semplicemente alimenta l’industria dei viaggi attraverso le sue fotografie. (Mia moglie mi definisce un turista di professione, ma questa è un’altra storia!). Viaggio allo scopo di scattare fotografie, e questo significa che quando sono al lavoro mi concentro completamente sul posto, la storia, le persone. I miei viaggi preferibilmente durano almeno cinque settimane, ho bisogno di tutto questo tempo per ambientarmi, non sentirmi legato ad una agenda troppo serrata e per trarre vantaggio dalle cose che capiteranno. Quindi potremmo dire che i luoghi, le persone ed il viaggio sono inseparabili dalla fotocamera. Io li percepisco attraverso lo scatto. Ma di sicuro spengo la fotocamera per uscire a cena o prendere qualcosa al bar!

DSiamo rimasti molto colpiti dai tuoi lavori riguardo il sud-est asiatico, se dovessi scegliere, cosa colpisce di più il tuo occhio tra le persone, i colori, i paesaggi, la vita urbana, i monumenti?

M: E’ nella natura umana classificare le cose in un certo ordine e sceglierne di preferite, quindi non posso biasimarvi per questa domanda. Ma la verità è che io non mi avvicino alle storie, ai servizi e ai viaggi in questo modo. Ho avuto tempi belli e brutti nel mio cammino, successi e fallimenti, ma quasi ogni viaggio ha avuto qualche qualità speciale, e me ne ricordo con passione molti. Eccone alcuni: guadare cumuli di guano di uccelli zeppi di scarafaggi in una caverna in Borneo mentre facevo un servizio su una “cena” all’interno di un nido… Bere rum da una noce di cocco appena colta a Bayon dopo un giorno di scatti fatti ad Angkor ed essere l’unico occidentale in quel momento ad essere lì (sul serio!) … Volare sul mare di Sulu a bordo di un elicottero d’assalto che l’aviazione filippina mi ha concesso per tre giorni … Vivere in un remoto villaggio Akha vicino il confine Birmano (nei primi tempi, quando non c’erano turisti…)
Certo, penso che ogni editore fotografico che produce un servizio probabilmente ti direbbe che il quello è il lavoro su cui è fissato al momento. Tendo anche io ad avere fissazioni. In questo momento è la Cina, particolarmente dopo gli ultimi due anni, spesi a scattare il mio nuovo libro (che ora è in fase di stampa) riguardo un’antica via di commercio tra lo Yunnan ed il Tibet, intitolato The Tea Horse Road.

DPrima di iniziare un viaggio, è importante per un fotografo lo studio del lavoro fotografico già esistente sul quel luogo, o questo atteggiamento tende ad avere una influenza troppo forte sui nostri scatti quando siamo sul posto?

M: Bella domanda. Ho sentimenti misti al riguardo. In un mondo ideale preferirei guardare un sacco di brutte foto del luogo, al semplice scopo di sapere cosa vi troverò senza esserne influenzato. La peggior cosa nel guardare belle foto è che cominci a pensare di non poterne fare di simili senza copiare. Ma in realtà di alcuni posti in cui sono stato non esisteva già nessuna fotografia!

DOggi tutti possono approdare alla foto semiprofessionale attraverso i prezzi relativamente bassi di reflex ed altro equipaggiamento da professionista. Pensi che questo trend abbasserà la qualità generale delle foto che si vedono in giro? Pensi che le migliori foto siano appannaggio ancora solo dei grandi fotografi?

M: La cosa buona riguardo questa maggiore accessibilità è che sempre più persone stanno trattando la fotografia in modo serio e vogliono usarla come un mezzo di espressione creativa. Tutto ciò mi piace parecchio. Per quanto riguarda la qualità, beh, come in ogni medium creativo c’è una specie di piramide di qualità. Ci saranno sempre pochi fotografi molto bravi, ma potremmo dire lo stesso di attori, musicisti, scrittore e così via. La proporzione tra mediocre e ottimo probabilmente resta la stessa, quindi un maggior numero di fotocamere significherà un maggior numero di foto mediocri ed ottime!

DTu hai scritto un’enorme quantità di libri, ogni fotografo qui in Italia ti conosce per i tuoi scritti educativi e i tuoi bellissimi libri fotografici; questa attività ti impedisce di scattare in alcuni momenti? O riesci a trovare il giusto tempo per ogni cosa?

M: Io penso che mi impegno troppo, specialmente nello scrivere di fotografia, ma la cosa mi appassiona, così non ho molta scelta. Sono una persona molto attiva in ogni caso. Ma ho fastidiosi dubbi sul fatto che dovrei in realtà stare fuori a scattare quando mi trovo a scrivere. Comunque, prendiamo ad esempio la giornata di oggi. Sono appena arrivato in volo da Shanghai a Pechino, quindi il tempo necessario al volo è stato perfetto per scrivere. E sto scrivendo questa risposta per voi adesso nella mia camera d’albergo, è tardo pomeriggio con un giorno molto piatto e grigio al di fuori. Pensavo di andare in un parco qui vicino dove stanno svolgendo varie attività tra cui Tai Chi e Calligrafia, ma la luce non è ideale e devo restare ancora alcuni giorni qui. Per cui… scrivo!

DQuale sarà il tuo prossimo progetto fotografico?

M: Ho sempre diversi progetti attivi allo stesso momento, e generalmente possiamo suddividerli in tre tipi: reportage, design e architettura, libri fotografici. I primi sono i più interessanti, ma devo dire che ora come ora non ho nulla di particolare al riguardo, avendo speso i miei ultimi due anni sul libro The Tea Horse Road di cui parlavo prima. E’ stato un periodo di forte dedizione. Quello precedente è stato il Sudan, altri due anni. Ho qualche possibilità in mente, ma devo esserne ben certo visto che dovrò passare altri due o tre anni concentrato su ciò che sceglierò!

DHai un nuovo libro in uscita?

M: Sì. Si intitola “La mente del fotografo” ed è il seguito a “L’occhio del fotografo”. Il primo di questi libri è stato sempre come un figlio per me, ma avevo un sacco di cose in più da dire. Comunque, dobbiamo tenere il numero di pagine sempre non troppo alto in un libro per far sì che il prezzo rimanga accessibile. Così nello scorso anno e mezzo ho scritto questo nuovo libro che continua dove l’altro finisce. “L’occhio del fotografo” ha avuto un sorprendente successo, tutto ciò è molto gratificante, più di 300.000 copie finora in 16 lingue.

DHai un suggerimento particolare per i nostri lettori?

M: Suggerimento? Cielo… Non faccio che darne nei miei libri! Pensavo che i vostri lettori avrebbero accolto con piacere un momento di pausa dai consigli di Freeman! Ok, solo uno allora… Spingetevi con coscienza a sperimentare in tre aree: scelta del soggetto, composizione e illuminazione.

Helmut Newton scattava raramente in studio, preferendo la strada come sua tela; il suo stile, erotico-urbano, era supportato da una tecnica fotografica eccellente. Fu un protagonista indiscusso della fotografia del XX secolo, un “provocatore” che ha scosso il mondo con le sue immagini femminili intrise di erotismo.

SOGGETTO DONNA – Nel 2004 viene pubblicata la sua autobiografia, scritta poco prima della morte, e raccontata in prima persona. Si capisce tra le sue parole, quanto la donna sia costantemente stata per lui una continua ambizione, una spinta essenziale a ricercare nuove idee e visioni imprevedibili ma allo stesso tempo inconfondibili nello stile.

L’APPRENDISTATO – Helmut Newton compra la prima macchina fotografica a soli dodici anni. Frequenta la scuola americana, dalla quale viene espulso quando la sua passione per la fotografia finisce per incidere negativamente con gli studi. Nel 1936, a sedici anni, comincia il suo apprendistato vero e proprio presso l’atelier della fotografa di moda Iva. Frequenta nel frattempo una ragazza ariana che mette a rischio la sua incolumità a causa della sempre maggior diffusione delle leggi antiebraiche. I suoi genitori lo imbarcano così su una nave diretta in Cina, ma Helmut si ferma a Singapore, dove, per appena due settimane, lavora per il quotidiano “Straits Times”. E’ proprio in questo periodo che inizia a capire quale potrebbe essere la sua strada lavorativa.

LA MOGLIE JUNE– Nel 1940 arriva in Australia e dopo un breve periodo di prigionia in quanto cittadino tedesco, raggiunge le forze australiane al fronte per ben cinque anni. Nel 1946 diventa cittadino australiano e nel 1948 sposa l’attrice June Brunnell, che conosce sul lavoro: lei posa, infatti, come modella per le sue fotografie. I due resteranno marito e moglie per oltre cinquanta anni. June è un’attrice, ma è nota anche per la sua attività di fotografa che esercita con lo pseudonimo di Alice Springs dal nome della omonima cittadina australiana.

La fama di Newton esplose nel mondo della fotografia alla fine degli anni ‘60, quando inizò’ ad introdurre nella fotografia di moda elementi di sado-masochismo, voyeurismo e omosessualità. Le donne sono riprese in pose provocanti: si aggirano cariche di tensione erotica attraverso la camera di un albergo; si adagiano su un divano colme di soddisfazione.

La sua carriera è stata accompagnata dal gusto per la provocazione.  Nel 1974, uscì il suo primo libro “White Women”. che ottenne l’effetto desiderato: una bomba . A partire dal titolo, accusato di razzismo. «Ma quale razzismo» replicò, «è un bellissimo titolo, tantopiù che non c’è neanche una donna nera in tutto il volume…»

Helmut Newton aveva capito che più le sue opere erano ambigue, più riuscivano a disorientare l’osservatore, più sarebbero rimaste nella sua memoria. Ha sempre sfidato le convenzioni e lo sguardo dell’osservatore,  talvolta prendendolo in giro, ma sempre con stile ed eleganza.

Nonostante sia stata spesso oscurata dai contenuti, la sua tecnica fotografica è sopraffina: luci e composizione sono  praticamente impeccabili.

Insomma, una cosa è certa : le foto di Newton sono impossibili da ignorare.

I servizi realizzati per prestigiose campagne del settore moda, provocazioni e soluzioni innovative, sofisticate, non prive di rimandi alla storia dell’arte europea e al cinema, sempre con stile, fino ai ritratti iconici di personaggi noti del jet set internazionale, come Andy Warhol (1974), Ralph Fiennes (1995), Gianni Agnelli (1997), Catherine Deneuve (1976), Paloma Picasso (1983) e Leni Riefenstahl (2000).

VOGUE – Nel 1956 Newton viaggia a lungo attraverso l’Europa. A Londra firma un contratto di un anno con “British Vogue”, che rescinderà dopo 11 mesi. In seguito è a Parigi e quindi a Melbourne dove chiude un contratto con “Vogue Australia”. Nel 1961 torna a Parigi e si trasferisce in un appartamento in Rue Aubriot, nel Marais. Viene assunto a tempo pieno da “Vogue Paris”; occasionalmente lavora come fotografo editoriale per “British Vogue” e “Queen”. Collabora inoltre con ‘Marie Claire’, ‘Elle’ ‘Playboy’, ‘Vanity Fair’ e ‘GQ’.

LA MORTE – Esibisce i scuoi scatti in mostre in giro per il mondo a New York, Parigi, Londra, Houston, Mosca, Tokio, Praga e Venezia. Nel 1976 pubblica il suo primo volume di fotografie ‘White women’ e nel 1996 il ministro della cultura francese gli concede il titolo di Gran Commendatore delle arti e delle lettere. Il 23 giugno del 2004 all’età di 83 anni come in un set di una delle sue patinate fotografie, si schianta alla guida di una Cadillac contro una palma del Sunset Boulevard di Hollywood.

“Il mio lavoro come fotografo ritrattista è quello di sedurre, divertire e intrattenere.”

 “Bisogna essere sempre all’altezza della propria cattiva reputazione”

“Nelle mie foto non c’è emozione. È tutto molto freddo, volutamente freddo.”

 “Per me il massimo è fotografare Margaret Thatcher: che cosa c’è di più sexy del potere?”

 “Spesso mi capita di soffrire d’insonnia. Forse ho visto troppe immagini in vita mia per poter dormire tranquillo.”

 “Investo molto tempo nella preparazione. Penso a lungo a ciò che voglio realizzare. Ho libri e piccoli quaderni in cui scrivo tutto prima di una seduta fotografica. Altrimenti dimenticherei le mie idee.”

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